Notiziario Stop Pesticidi
- Dettagli
La 17a Semaine Pour les Alternatives aux Pesticides (SPAP) - Settimana delle alternative ai pesticidi - si tiene ogni anno dal 20 al 30 marzo. È una data simbolica: sono i primi 10 giorni di primavera, ritornano gli uccelli e il bel tempo, ma soprattutto riprendono le irrorazioni di pesticidi nei campi.
La SPAP ha tre obiettivi:
INFORMARE i cittadini sui rischi dei pesticidi di sintesi per la nostra salute e per il pianeta.
PROMUOVERE soluzioni alternative per vivere, consumare e produrre in modo sostenibile.
COORDINARE una rete di iniziative e mobilitare un pubblico sempre più ampio
Ogni anno, circa 500 eventi sono organizzati in tutta la Francia e all'estero.
Conferenze, film-dibattiti, giornate aperte in fattorie, mulini, giardini, degustazioni, laboratori, dimostrazioni, spettacoli, mercati... gli eventi sono molto vari ma tutti hanno lo stesso obiettivo: promuovere le alternative esistenti, efficaci e sostenibili ai pesticidi di sintesi!
La SPAP è coordinata a livello nazionale dall'associazione Générations Futures; e riunisce una cinquantina di organizzazioni francesi e internazionali.
Gli eventi sono organizzati localmente da associazioni, autorità locali, aziende, sindacati, scuole, associazioni di studenti: tutti possono mettere in piedi un'azione nel quadro della SPAP!
Il contesto
Le cifre sono impietose e l'obiettivo di ridurre i pesticidi del 50% annunciato nel 2008 durante il primo piano Ecophyto è lontano dall'essere raggiunto.
Infatti, le quantità di sostanze attive vendute [in Francia NdR ] sono aumentate del 21% tra il 2017 e il 2018, mentre l'indicatore NODU è aumentato di oltre il 24% nello stesso periodo. [Il NODU: "NOmbre de Doses Unités" è un indicatore che monitora l'uso dei prodotti fitosanitari. In relazione alla superficie agricola utile (SAU), il NODU permette di determinare il numero medio di trattamenti per ettaro. NdR].
Nessuno può ignorare le conseguenze dell'uso dei pesticidi su scala globale e nazionale, sia per l'ambiente che per la salute.
Per esempio, è ormai scientificamente stabilito che circa 385 milioni di casi di intossicazione acuta si verificano ogni anno in tutto il mondo, compresi circa 11.000 morti. (cifre basate su uno studio del 2020). E questo riguarda “solo” l’intossicazione acuta! Questi effetti sulla salute sono purtroppo rilevanti anche nel caso di esposizione cronica ai pesticidi, come dimostrato, per esempio, dal rapporto INSERM del 2013. Oltre agli effetti sulla salute, è stato anche stabilito che i pesticidi hanno un impatto duraturo sul nostro ambiente e sulla biodiversità.
Il rapporto della FNH (febbraio 2021) evidenzia un aumento del 25% dell'uso di pesticidi negli ultimi 10 anni in Francia, mentre la Legge Grenelle, nel 2007,ha fissato un obiettivo di riduzione del 50% dell'uso di pesticidi entro il 2025. Inoltre, dei 23,2 miliardi di euro di fondi pubblici ricevuti annualmente dall'industria alimentare, solo l'1% ha un effetto provato sulla riduzione dei pesticidi!
Il tema dell'edizione 2022 è: "ONE HEALTH"
Il termine One Health può essere tradotto come Salute Globale e si riferisce ai legami tra la salute umana e la conservazione della biodiversità. Le conseguenze sanitarie e ambientali dei pesticidi riguardano tutti noi, qualunque sia la nostra attività: consumatori, agricoltori, cittadini, giardinieri, cuochi ... Insieme possiamo fare la scelta di promuovere alternative ai pesticidi nella nostra vita quotidiana!
L'agricoltura biologica è una delle soluzioni all'uso di pesticidi di sintesi dalle conseguenze dannose. Benefici per la salute, effetti positivi sulla biodiversità e l'ambiente: questo modello agricolo sta facendo progressi in Francia. Nel 2019, con 8,5% della sua superficie agricola utile (SAU) coltivata biologicamente, la Francia è in linea con la media europea. Ogni giorno in Francia nascono 23 nuove fattorie biologiche. Tuttavia, questo progresso non è ancora sufficiente per contrastare gli effetti nocivi di un modello agricolo, chimicamente intensivo, che è diventato obsoleto. Per spostare davvero il nostro sistema agricolo verso un modello veramente sostenibile e virtuoso, lo Stato francese deve stabilire regole molto più restrittive.
- Dettagli
L’emergenza climatica, la pandemia, il caro energia e ora la guerra in Ucraina. Quattro crisi sovrapposte stanno generando effetti a catena sulle filiere internazionali delle materie prime alla base del sistema agroindustriale. Negli ultimi mesi abbiamo visto i prezzi del gas crescere a dismisura, intere catene di approvvigionamento spezzarsi sotto l’urto del Covid, i prezzi del grano e di altre commodities schizzare alle stelle per il combinato disposto di cambiamento climatico, speculazioni di borsa e conflitto in Ucraina.
In questa tempesta perfetta si moltiplicano le voci dei rappresentanti dell’industria che chiedono una maggiore protezione dalle turbolenze del mercato internazionale e una riduzione della dipendenza dalle importazioni di questi beni. Per il mondo ecologista – pur nella consapevolezza della spirale drammatica in cui gli eventi stanno precipitando le società – è certamente un sollievo vedere aprirsi un ragionamento sulla rilocalizzazione dei processi produttivi. La transizione ecologica, infatti, deve passare per una riduzione dei flussi di materia e di energia che attraversano i sistemi economici. Accorciare le filiere è parte di questa strategia, coerente con una ricerca della pace e una riduzione della competizione sfrenata.
Tuttavia, non è questo lo scenario che hanno in mente i grandi gruppi di interesse, almeno quelli che influenzano la struttura del sistema alimentare. Le proposte avanzate in questi ultimi giorni, infatti, non vanno nella direzione di una trasformazione del modo insostenibile di produrre e consumare il cibo: si limitano alla richiesta di farlo sul continente europeo piuttosto che altrove. Lo stesso presidente del Consiglio, Mario Draghi – che ha incontrato ieri il Ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli – ha detto durante il question time di oggi alla Camera dei Deputati che in maniera simile all’energia, anche per l’agroalimentare bisognerà “diversificare” e aumentare la produzione europea. Tuttavia, ha aggiunto, “non è facile aumentare la superficie coltivabile sulla base dei regolamenti comunitari, quindi occorrerà, anche in questo caso, riconsiderare“.
L’incubo della guerra viene dunque strumentalizzato per cavalcare il clima di angoscia e preoccupazione che ci attanaglia, con lo scopo di ottenere un allentamento delle normative ambientali in vigore nel vecchio continente e sfruttarne il territorio per proseguire con una produzione agricola industriale basata su energie fossili, fertilizzanti chimici, monocolture standardizzate e allevamenti intensivi. E’ un tentativo di approfittare del momento per dare una spallata alla transizione ecologica, non per accoglierla e promuoverla. Ma andiamo con ordine.
Perché aumentano i prezzi del cibo e qual è il ruolo della guerra in Ucraina
Nelle ultime settimane i media si sono occupati spesso dell’impatto dell’invasione russa sul mercato globale dei beni alimentari e del relativo aumento dei prezzi. Cosa sta succedendo davvero? Un rapporto dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), uscito il 1 marzo, mette a fuoco le diverse cause all’origine di questo picco dei prezzi di grano, mais, fertilizzanti e altri prodotti scambiati sul mercato internazionale.
Secondo l’ISMEA, lo scoppio del conflitto si è innanzitutto inserito in un contesto di “tensioni scatenate da un insieme di fattori di tipo congiunturale, geopolitico e non ultimo speculativo, che rendono l’Italia particolarmente vulnerabile in ragione dell’alto grado di dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti di grano e mais”. Grano duro (l’ingrediente base della pasta, per intenderci), grano tenero (con cui facciamo il pane) e mais (con cui si alimentano gli animali negli allevamenti) hanno raggiunto prezzi senza precedenti, superando addirittura i picchi raggiunti nella crisi del 2008. Le cause però, come detto, sono diverse:
- l’aumento dei prezzi del grano duro è figlio del crollo della produzione canadese, che ha segnato un -60% nel 2021 rispetto al 2020. La causa? Una siccità prolungata che ha fatto collassare i raccolti, riducendo le scorte globali, fatto che dimostra come i fenomeni climatici estremi sempre più intensi possano avere un impatto deflagrante su sistemi alimentari basati sulle filiere lunghe. Il problema, infatti, è che il nostro paese dipende fortemente dalle importazioni di grano duro, perché produce solo il 60% di quello che utilizza.
- Lo stesso vale per il mais, principale ingrediente nelle mangiatoie degli animali allevati, per il quale il tasso di autoapprovvigionamento è ancora inferiore: poco più della metà di quello utilizzato è prodotto sul territorio nazionale. Va detto che dall’Ucraina acquistiamo soltanto il 13% delle nostre importazioni di mais e che i forti rincari sono iniziati mesi fa con la ripresa della domanda cinese a seguito dell’epidemia di peste suina.
- Il grano tenero è il vero tallone d’Achille, con appena un 35% di materia prima made in Italy. Di buono c’è che le importazioni italiane dipendono solo per il 6% dal grano tenero prodotto nei due paesi est europei. Il boom dei prezzi, infatti, non ha come causa diretta il conflitto, quanto piuttosto la speculazione finanziaria: il grano tenero (come il mais e altre commodities) è infatti quotato in borsa e oggetto di contratti a termine denominati futures, il cui valore è soggetto saliscendi speculativi, che impattano però sull’economia reale.
- La vera esposizione dell’Italia con l’Ucraina è sull’olio di girasole, impiegato nella produzione di conserve, salse, maionese e altri prodotti destinati alla grande distribuzione. Inoltre, i ristoranti lo utilizzano in grandi quantità per le fritture. Più di un terzo del nostro consumo annuo (770 mila tonnellate nel 2021 secondo ASSITOL) è coperto dalla produzione del paese est europeo. Da noi se ne producono 250 mila tonnellate, quello che rimane viene da fuori, il 63% proprio da Kiev (circa 330 mila tonnellate).
A tutto questo si aggiunge l’aumento dei costi di trasporto. Questi ultimi derivano da una crescita dei costi dell’energia e da una ripresa della domanda mondiale dopo la prima ondata pandemica, che secondo ISMEA ha determinato “problemi organizzativi nei principali scali mondiali” con “gravi rallentamenti delle catene di fornitura” e “aumenti vertiginosi dei costi dei trasporti e dei noli dei container”.
Gli effetti della guerra in Ucraina, comunque, al netto della speculazione e degli altri fattori (rimbalzo della domanda globale post-Covid e picco dei prezzi energetici), contribuiscono a rendere instabile il mercato internazionale e potrebbero peggiorare nel prossimo futuro. Questo perché, anche se con il nostro paese le relazioni commerciali sono solo relativamente importanti (l’Italia assorbe appena il 3% dell’export agroalimentare ucraino), Kiev e Mosca esportano il 30% del grano tenero globale e riforniscono molti paesi in Medio Oriente e Nord Africa. Libano, Egitto, Tunisia, Yemen ed Etiopia, ad esempio, coprono con la produzione russa e ucraina dal 40 al 95% delle loro importazioni. E anche se il governo Zelensky ha annunciato che esporterà più dell’anno passato (23 milioni di tonnellate di grano tenero e 33 di mais, più o meno in linea con le ultime stime dell’International Grain Council del 17 febbraio), la situazione attuale rende difficile prevedere se le promesse saranno mantenute. Lo scoppio del conflitto ha provocato infatti un “terremoto” nel settore del commercio marittimo, interrompendo le rotte, deviando le navi mercantili e facendo aumentare i costi, con conseguente aumento dei prezzi al consumo. Un prezzo che potremo pagare anche noi.
Come sta rispondendo l’Europa
Esiste quindi un potenziale effetto domino che la guerra in Ucraina può innescare, se dovesse protrarsi l’incertezza negli scambi di materie prime. Lo spettro di un blocco russo dei porti nel Mar Nero e nel Mar d’Azov, da cui partono i mercantili ucraini, ha messo in allarme le istituzioni europee, gli agricoltori e l’industria alimentare.
Il 2 marzo scorso si è tenuto un consiglio straordinario dei Ministri dell’Agricoltura europei, al termine del quale la richiesta è stata di “liberare la capacità produttiva dell’UE” per ridurre la dipendenza di materie prime dall’estero. Una frase apparentemente innocua, che tuttavia ha un significato molto preciso se collegata alla dichiarazione rilasciata poco dopo in conferenza stampa dal Commissario UE all’Agricoltura Janusz Wojciechowski. Il Commissario ha garantito che l’esecutivo europeo analizzerà l’impatto delle strategie europee Farm to Fork e Biodiversità sulla sicurezza alimentare, facendo intendere che i vincoli ambientali in esse contenuti (riduzione di pesticidi e fertilizzanti chimici, aumento dell’agricoltura biologica e delle quote di superficie agricola da tenere “a riposo”) potrebbero essere d’impaccio per la produzione alle prese con la crisi.
Cosa non va esattamente nelle strategie cardine varate dalla Commissione Von der Leyen per concretizzare il Green Deal europeo nel settore agricolo e alimentare? La critica della potente lobby Copa-Cogeca, che riunisce le associazioni agricole di categoria e le cooperative agroalimentari dei 27 paesi, si concentra su un punto in particolare: il vincolo del 10% di superficie agricola da lasciare incolta su ogni terreno arabile. Questa prescrizione doveva servire ad evitare che l’agricoltura industriale, con le sue monocolture, togliesse anche il minimo spazio a specie selvatiche come uccelli, farfalle, api e altri insetti fondamentali per l’agricoltura e gli ecosistemi.
Ciononostante, il tentativo di destinare una quota della superficie agricola alla biodiversità è stato rapidamente sterilizzato: il vincolo del 10% è stato eroso attraverso la Politica agricola comune (PAC), cioè l’insieme di regolamenti che avrebbe dovuto garantire la “messa a terra” delle strategie Farm to Fork e Biodiversità. Infatti, Il pacchetto approvato dalle istituzioni europee e dai governi nazionali lo scorso giugno indica che in ogni azienda agricola “almeno il 3% dei seminativi sarà dedicato alla biodiversità e agli elementi non produttivi”.
Non pago, Copa-Cogeca ha chiesto il 7 marzo di “poter coltivare tutta la terra disponibile nel 2022 per compensare il blocco della produzione russa e ucraina. Tutto deve essere fatto per prevenire interruzioni nelle catene di approvvigionamento, che porteranno inevitabilmente a carenze in alcune parti del mondo. Questa è una questione essenziale di sovranità alimentare e stabilità democratica”. Una posizione molto simile a quella della Federazione dei sindacati agricoli francesi (FNSEA), che detiene la presidenza del Copa-Cogeca in questa fase, e che il 2 marzo ha severamente ammonito i Ministri dell’Agricoltura riuniti in consiglio: “In primo luogo – si legge nel comunicato della FNSEA – la logica della decrescita auspicata dalla strategia europea Farm to Fork deve essere profondamente messa in discussione. Al contrario, dobbiamo produrre di più sul nostro territorio, produrre in modo sostenibile, ma produrre. In secondo luogo, va immediatamente messo in discussione l’obbligo nella futura PAC di destinare il 4% [sic!] alle aree cosiddette ‘non produttive’”.
L’Italia si è accodata a questa richiesta di “sovranità alimentare” con tutte le associazioni di categoria e le alleanze di cui fanno parte. Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia (alleanza che va dalla Coldiretti al Conad), intervistato dal Corriere della Sera parla della transizione ecologica come di una “strategia miope di smantellamento della produzione agricola europea senza la minima valutazione d’impatto”.
Una narrativa, come abbiamo visto, sposata anche dal Commissario UE Wojciechowski, dal nostro Ministro Patuanelli e dal Presidente Mario Draghi. Le loro affermazioni sembrano però contraddette dai dati recentemente diffusi dalla Commissione europea, secondo cui il continente produce più cereali nel complesso di quanti ne consumi, ed è già autosufficiente per quanto riguarda grano tenero, orzo e segale, mentre importa il 20% del consumo totale di mais e grano duro. Quanto potrà pesare la soppressione di quel vincolo del 3% su un sistema che sembra aver raggiunto già i suoi limiti? Quanti ettari ancora devono essere destinati a colture proteiche per l’alimentazione animale? Nell’Unione già oggi quasi tre quarti dei terreni agricoli sono utilizzati per mangimi: la soluzione prospettata da questi gruppi di interesse è produrne ancora di più, per foraggiare “in sicurezza” l’industria dell’allevamento intensivo. Quella che stanno conducendo non sembra dunque una battaglia per il diritto al cibo o la sovranità alimentare, ma una battaglia per proseguire business as usual su una china insostenibile per tutti.
La dottrina dello shock e il destino della transizione ecologica
La crisi e la guerra, in questo quadro, diventano un pretesto per rimettere in discussione l’impianto normativo europeo in campo climatico e ambientale. Un impianto già largamente insufficiente, eppure osteggiato dalle imprese. Basti prendere, a titolo di esempio, le dichiarazioni rilasciate da Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, alla trasmissione Mezz’ora in più domenica scorsa: per Bonomi, di fronte ai potenziali impatti di questo conflitto “bisogna essere realisti, allungare i tempi e spostare gli obiettivi della transizione ecologica”.
Somiglia molto come stile a quello che Naomi Klein ha definito “capitalismo dei disastri” nel suo celebre saggio The Shock Doctrine. Una macchina di interessi che si mette in moto quando le crisi sconvolgono le società per ottenere privatizzazioni, deregolamentazione e taglio delle tutele sociali. In questo caso il processo sembra avvenire perfino tramite l’appropriazione, da parte dell’agroindustria, dei termini e dei concetti propri dei movimenti contadini, come la sovranità alimentare. Nata nel 1996, questa proposta non ha niente a che fare con l’intenzione di coprire ogni metro quadro disponibile in Europa con monocolture destinate agli allevamenti intensivi. E’ invece la proposta di un’agricoltura ecologica, su scala più ridotta, diversificata e orientata al mercato locale. Un settore agricolo così composto, votato fra l’altro alla produzione di cibo più che di mangimi (che invece occupano quasi tre quarti della superficie agricole europea), sarebbe più resistente agli shock e meno esposto ai picchi di prezzo, più sostenibile e a maggiore intensità di lavoro. Questa è la rilocalizzazione di cui abbiamo bisogno. Ciò su cui dobbiamo investire con urgenza, come scrivono anche i ricercatori di ARC2020, è “una nuova infrastruttura territoriale per la produzione e la trasformazione del cibo, che trasformi il complesso agroindustriale in un sistema di approvvigionamento decentralizzato resiliente”. La guerra in Ucraina ci rivela infatti l’estrema vulnerabilità di un sistema alimentare globalizzato, incapace di garantire tanto la sicurezza quanto la sovranità alimentare.
Fabio Ciconte
Fonte: Associazione Terra - 09.03.2022
- Dettagli
La diffusione in ambiente di farmaci e pesticidi ha raggiunto livelli tali da determinarne la presenza anche negli uccelli marini. Lo rivela una ricerca condotta da Marco Picone, ricercatore dell’Università Ca’ Foscari Venezia, su due specie che nidificano nella Laguna di Venezia, la sterna ‘beccapesci’ (Thalasseus sandvicensis) e il gabbiano corallino (Ichthyaetus melanocephalus). Come predatori apicali nella rete trofica acquatica, sono ‘sentinelle’ del loro habitat e forniscono indicazioni indirette sulla presenza dei farmaci nei tessuti delle loro prede e nell’ambiente.
L’analisi sulle piume prelevate dai pulli di questi uccelli marini non ha lasciato spazio a dubbi: l’87% dei 47 campioni analizzati conteneva il principio attivo diclofenac, un antinfiammatorio non-steroideo, ma sono stati rilevati anche ibuprofene, nimesulide, naprossene e gli antidepressivi citalopram, fluvoxamina e sertralina. Inoltre, il 91% dei campioni contenevano tracce quantificabili di neonicotinoidi, una classe di pesticidi chimicamente simili alla nicotina
L’idea delle piume
Il progetto è stato il primo a considerare l’impiego delle piume per monitorare l’esposizione degli uccelli acquatici ai prodotti farmaceutici. Inoltre, è il primo a testimoniare la presenza di farmaci antiinfiammatori non-steroidei (FANS) e gli inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina (SSRI) nei tessuti dei pulli.
“Abbiamo studiato i pulli non volanti di beccapesci e gabbiani corallini perché dipendono totalmente dai genitori per l’alimentazione - spiega l’ecotossicologo Marco Picone -. Questi uccelli procurano il cibo per la prole in un’area di alcuni chilometri quadrati intorno alle colonie di nidificazione. Di conseguenza, i contaminanti presenti nei pulcini risultano totalmente attribuibili alla contaminazione locale dell’area di nidificazione”.
Le piume sono state prelevate nel tratto dorsale dei pulli, senza conseguenze sullo stato di salute dei giovani uccelli. Le piume, infatti, fungono da archivio dei contaminanti presenti nel plasma degli uccelli durante il periodo di formazione della piuma stessa, fornendo indicazione diretta dell’esposizione cui sono stati soggetti gli individui studiati.
Pesticidi nella catena alimentare
Le piume di beccapesci sono state raccolte nel giugno 2019 da una colonia insediata nella Barena Celestia, una struttura morfologica lagunare periodicamente sommersa dalle maree. I campioni dei gabbiani arrivano invece dalla Laguna Nord e risalgono al giugno 2018.
Le date sono rilevanti, perché proprio nel 2018 l’Unione Europea ha messo al bando l’utilizzo outdoor di prodotti contenenti tre neonicotinoidi considerati dalla ricerca: imidacloprid, thiamethoxam e clothianidin.
“Abbiamo trovato imidacloprid e clothianidin in tutti i gabbiani e nella maggior parte dei beccapesci - spiega Picone - e questo conferma che il bando del 2018, non totale (ha riguardato solo le colture all’aperto), non ha eliminato gli input di questi pesticidi, e che gli uccelli marini sono esposti a questi contaminanti a prescindere dalle loro abitudini alimentari. I gabbiani corallini, infatti, sono onnivori e nella loro dieta possono entrare tanto specie acquatiche quanto insetti irrorati dai pesticidi. I beccapesci, invece, si nutrono essenzialmente di piccoli pesci (sardine, spratti e acciughe). Quindi, questo conferma come i neonicotinoidi possano arrivare ovunque nell’ecosistema”.
Quali conseguenze sulla salute degli uccelli marini?
Finora si ritenevano esposti ai neonicotinoidi solo gli uccelli che si nutrono di semi e nettare, ed indirettamente i rapaci. Questo studio dimostra come nella catena della contaminazione possano finire anche specie apparentemente più lontane dal contesto agricolo.
La presenza di questi contaminanti nelle piume non è necessariamente indicativa di effetti tossici nei soggetti analizzati. Al momento si può escludere che l’esposizione attuale ai farmaci e ai neonicotinoidi cui sono soggetti gli uccelli possa determinare effetti acuti sui pulli, visto che non sono state rilevati comportamenti anomali o mortalità abnorme nelle colonie.
Le conseguenze a lungo termine sulla salute di beccapesci e gabbiani, dunque, non sono ancora chiare e richiederanno ulteriori studi. Tuttavia, i ricercatori concordano nel ritenere i neonicotinoidi potenzialmente dannosi per la salute riproduttiva degli uccelli.
“Le sostanze tossiche potrebbero indurre un ritardo nella migrazione - spiega Picone -, che a sua volta può indurre gli esemplari a fermarsi in luoghi non ottimali per la selezione dei partner e a ritardi nella nidificazione. Effetti a catena che possono mettere in pericolo specie già vulnerabili”.
Studio italiano
I dati sono stati pubblicati sulle riviste scientifiche Science of the Total Environment e Environmental Research e sono il frutto del progetto AWExPHARMA, finanziato dall'Università Ca’ Foscari Venezia attraverso le misure di sostegno alle idee di ricerca dei propri ricercatori che ambiscono a crescere in progetti collaborativi internazionali (bando SPIN 2018, misura 2).
Lo studio è stato coordinato da Marco Picone e la sua realizzazione è frutto della collaborazione tra il gruppo di Ecotossicologia dell’Università Ca’ Foscari Venezia, i gruppi di Chimica Analitica di Ca’ Foscari e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche, e gli inanellatori accreditati dal Centro Nazionale di Inanellamento dell’ISPRA.
Enrico Costa da > UNIVE.IT

- Dettagli
“L’inquinamento da parte di Stati e aziende sta contribuendo a più morti a livello globale rispetto a quelli che abbiamo contato con la pandemia da Covid-19”. È quanto si legge in un rapporto redatto delle Nazioni Uniti che sarà presentato il mese prossimo al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. “È necessaria un’azione immediata e ambiziosa per vietare alcune sostanze chimiche tossiche” si legge nel documento che afferma che l’inquinamento da pesticidi, plastica e rifiuti elettronici sta causando diffuse violazioni dei diritti umani e almeno 9 milioni di morti premature all’anno, e che il problema è in gran parte trascurato.
La pandemia di coronavirus ha causato quasi 5,9 milioni di morti, secondo l’aggregatore di dati Worldometer.
“Gli attuali approcci alla gestione dei rischi posti dall’inquinamento e dalle sostanze tossiche stanno chiaramente fallendo, con conseguenti violazioni diffuse del diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile”, ha spiegato l’autore del rapporto, il relatore speciale delle Nazioni Unite David Boyd, aggiungendo: “Penso che abbiamo un obbligo etico e ora legale di fare meglio da parte di queste persone”.
Nel documento, si fa, tra l’altro, uno specifico riferimento all’Ilva di Taranto sostenendo che “da decenni compromette la salute delle persone e viola i diritti umani scaricando enormi volumi di inquinamento atmosferico tossico. I residenti nelle vicinanze soffrono di livelli elevati di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, malattie neurologiche debilitanti e mortalità prematura. Le attività di bonifica che avrebbero dovuto iniziare nel 2012 sono state posticipate al 2023, con l’introduzione da parte del Governo di appositi decreti legislativi che consentono all’impianto di continuare a funzionare. Nel 2019, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso che l’inquinamento ambientale continuava, mettendo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione residente nelle aree a rischio”. L’acciaieria di Taranto era stato uno dei siti inquinanti oggetto della visita in Italia di Marcos Orellana, relatore speciale Onu su diritti umani e sostanze e rifiuti tossici di cui abbiamo parlato in questo articolo.
I Pfas vanno messi al bando al più presto
Nelle conclusioni del documento c’è un esplicito sollecito ai governi a mettere al bando alcune sostanze come i polifluoroalchil e perfluoroalchil, sostanze artificiali utilizzate nei prodotti per la casa come pentole antiaderenti che sono state collegate al cancro e soprannominate “sostanze chimiche per sempre” perché non si degradano facilmente.
Allo stesso tempo, il rapporto indica come urgente “la bonifica dei siti inquinati e, in casi estremi, il possibile trasferimento delle comunità colpite – molte delle quali povere, emarginate e indigene – dalle cosiddette “zone di sacrificio”.
Quel termine, originariamente utilizzato per descrivere le zone di test nucleari, è stato ampliato nel rapporto per includere qualsiasi sito o luogo fortemente contaminato reso inabitabile dai cambiamenti climatici.
“Quello che spero di fare raccontando queste storie di zone di sacrificio è dare davvero un volto umano a queste statistiche altrimenti inspiegabili e incomprensibili (del bilancio delle vittime dell’inquinamento)”, ha concluso Boyd.
Fonte: https://ilsalvagente.it / di Valentina Corvino

- Dettagli
Intervista di Anna Magli Zandegiacomo a Fiorella Belpoggi, Direttrice Scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna.
Fiorella Belpoggi, è Direttrice Scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna, un ente nato agli inizi degli anni ‘70, riconosciuto a livello internazionale e noto per i suoi fondamentali contributi alla ricerca nel settore dell’oncologia e delle scienze ambientali, in particolare nell’ambito del rischio sanitario legato agli ambienti di lavoro. Nei suoi 50 anni di attività l’istituto ha studiato oltre 200 composti chimici, un’attività che lo ha qualificato al secondo posto nel mondo per il lavoro svolto, subito dopo il laboratorio governativo americano.
Dottoressa Belpoggi quali sono stati i risultati più eclatanti che hanno segnato la storia dell’Istituto Ramazzini in questi 50 anni?
Il modello sperimentale che abbiamo utilizzato è un modello uomo-equivalente, dove sia le dosi del composto studiato che l’incidenza spontanea delle diverse patologie sono vicini alla situazione umana. Anche la durata degli studi riguarda tutto il periodo della vita, dai primi giorni di gravidanza fino alla morte spontanea, come avviene nell’uomo. Il nostro modello sperimentale è particolarmente sensibile, in quanto non vengono trascurati gli effetti delle esposizioni durante periodi particolarmente suscettibili della vita, le cosiddette finestre di rischio, come la vita embrionale, fetale, neonatale fino all’età adulta. Molti degli effetti di esposizioni precoci si manifestano solo dopo decenni, e fra questi anche il cancro, le malattie immunologiche, i deficit immunitari e tutte le cosiddette “Malattie non trasmissibili” che, nella maggior parte dei casi, hanno alla base un alterato rapporto fra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Attraverso questo modello abbiamo studiato importanti composti industriali, presenti nel nostro ambiente di vita e di lavoro e per alcuni di essi, come le plastiche, l’amianto, i carburanti fossili e i loro componenti, gli zuccheri artificiali, i solventi come la trielina, disinfettanti come la formaldeide, abbiamo rilevato la loro cancerogenicità decenni prima che venissero classificati come cancerogeni dalle agenzie regolatorie internazionali.
Vorremmo approfondire con lei i contenuti dello studio sperimentale condotto dal Ramazzini sugli effetti del glifosato e della capacità del pesticida di alterare il microbioma intestinale. Si è fatta un’idea di quali saranno le conseguenze della valutazione che risulterà dal Global Glyphosate Study di cui anche voi fate parte? Che provvedimenti vi aspettate saranno presi?
La valutazione del glifosato per la sua ri-autorizzazione in Europa è attualmente in corso e il dossier è sul tavolo dell’EFSA. Entro quest’anno dovrà uscire un verdetto. Purtroppo sulla cancerogenesi non sono stati eseguiti ulteriori studi dal 2017 ad oggi, quando la IARC, branca dell’OMS che si occupa del cancro, ha espresso una valutazione di “probabile cancerogeno”. É in corso ed ormai alla fine il nostro studio, il Global glyphosate study, uno studio multicentrico internazionale condotto dal Centro di Ricerca sul Cancro Cesare Maltoni dell’Istituto Ramazzini, lanciato con l’obiettivo di fornire una valutazione più completa degli effetti tossici, cancerogeni e riproduttivi dei diserbanti basati sul glifosato. Per ora abbiamo studiato e pubblicato solo alcuni parametri correlati al primo anno di studio, i risultati sulla cancerogenesi saranno disponibili fra un anno circa, e quindi non potranno essere presi in considerazione per la valutazione in corso all’EFSA. Per riuscire a finire lo studio, completamente indipendente, e pubblicarlo, è stata lanciata una campagna di crowdfunding, che però non ha portato i risultati sperati nei tempi dovuti. Basta andare sul sito di www.globalglyphosatestudy.org per fare una donazione liberale.
Il glifosato e due formulati commerciali, quello europeo Roundup BioFlow e quello americano RangerPro, sono stati testati sperimentalmente a diverse dosi a partire da quelle attualmente ammessa in Europa (EU ADI, 0,5 mg/Kg/die). I primi risultati hanno dimostrato ancora una volta che il glifosato causa importanti danni al microbioma intestinale e conferma la capacità del pesticida di alterare il microbioma intestinale anche a basse dosi. Partner dello studio globale sono: King’s College di Londra, e George Washington University, Icahn School of Medicine at Mount Sinai negli USA.
In pratica abbiamo potuto osservare una situazione di alterazione della diversità batterica, una condizione già associata a diverse conseguenze negative per la salute quali diabete e alterazioni metaboliche nell’uomo. Inoltre, lo studio ha evidenziato per la prima volta effetti significativi dei pesticidi a base di glifosato sulla comunità dei funghi che abitano nel microbioma intestinale. Questo elemento è importante perché la presenza di categorie diverse di funghi nell’intestino umano è collegata ad una serie di malattie, quali ad esempio la sclerosi multipla. Considerate le potenziali conseguenze patologiche, anche in mancanza di nuovi dati sulla cancerogenesi, l’alterazione nella composizione del microbioma intestinale deve essere presa in considerazione dall’EFSA per assumere le proprie decisioni sulla pericolosità di questo erbicida.
Sempre a proposito di pesticidi è noto quanto gli stessi mettano a rischio la biodiversità, gli impollinatori, la fertilità del suolo, cioè i mattoni di un’agricoltura produttiva e resiliente. A che punto è la legislazione europea a tale proposito e quale è stato il contributo dell’Istituto Ramazzini a questa battaglia?
Devo dire che negli ultimi anni, almeno a livello di buone intenzioni, l’Europa ha fatto grandi passi avanti nelle politiche di salvaguardia del pianeta e della salute. Rimane però la delusione di vedere spesso disattese le buone intenzioni, in quanto ancora oggi i fondi europei vanno ancora di più all’agricoltura convenzionale che all’agricoltura biologica, vanno ad incentivare cioè quei sistemi produttivi che maggiormente mettono in pericolo biodiversità, impollinatori, fertilità del suolo.
Fra le sue ricerche più importanti c’è sicuramente quella legata agli effetti del 5g, in fase di implementazione mondiale. In una recente intervista lei ha dichiarato che il 5G pone due ordini di problemi: il primo di “opportunità”(con le reti già in essere è davvero necessario?) il secondo l’incertezza sugli effetti biologici avversi che possono compromettere la salute della popolazione. Ci vuole spiegare meglio la sua opinione e aggiornarci sui risultati degli ultimi studi effettuati?
In effetti le mie considerazioni sono legate al fatto che per le frequenze più basse del 5G (700 MHz e 3600MHz) sappiamo che sussistono pericoli correlati all’esposizione, soprattutto per le emissioni del telefono cellulare, ma anche delle antenne, così come esistono per le generazioni precedenti 2G, 3G, 4G-LTE. Il nostro studio sul 3G lo ha dimostrato. Questi pericoli vanno tenuti sotto controllo mantenendo i limiti di esposizione a livelli di precauzione come abbiamo oggi in Italia (6 Volt/metro), limiti che abbiamo ottenuto grazie ad una legge del 2001, in parte purtroppo peggiorata nel 2011 perché sono stati modificati i tempi di rilevamento da 6 minuti alla media giornaliera. Comunque in Italia al momento siamo cautelati, difficile ottenere di più tenendo conto del fatto che ormai i telefoni cellulari e le connessioni wireless sono entrati nella nostra vita in maniera diffusa e quasi indispensabile. E nel nostro studio a quel livello di esposizione non abbiamo osservato pericoli per la salute, Diverso è il discorso per la terza banda di RF che dovrebbe essere messa in campo dal 5G, 26.000 MHz. Queste sono onde centimetriche o microonde, e non sono mai state studiate adeguatamente per i loro effetti sulla salute. Già con la generazione 4G-LTE o con reti cablate si possono ottenere trasmissioni di dati veloci e sicuri senza implementare con frequenze mai studiate la nostra rete di trasmissione wireless.
Lei ha spesso dichiarato che tema della prevenzione deve tornare al centro sia delle politiche locali che di quelle globali, così come nelle abitudini dei cittadini. In questi ultimi due anni il Covid ha sconvolto le politiche sanitarie e il tema della prevenzione è passato spesso in secondo piano. Quali saranno le conseguenze e cosa bisogna fare per tornare alla normalità? C’è qualche insegnamento che possiamo trarre da quello che abbiamo vissuto in questi anni di emergenza sanitaria?
Questa è una bella domanda! Cosa bisogna fare per sfuggire al Covid-19, non lo so, non è nelle mie competenze. So comunque dai dati disponibili che il vaccino ci protegge e che questa quarta ondata ha causato sintomi meno gravi delle precedenti soprattutto nei vaccinati. Oltre non vado.
Per quanto riguarda gli insegnamenti, forse l’unica cosa che ci è chiara è che non siamo onnipotenti. Dovremmo aver capito che solo una solidarietà globale potrà aiutarci a recuperare la salute del nostro pianeta e la nostra. Noi ci siamo adattati ad una medicina che ha avuto una visione consumistica, commerciale, dedicata ai ricchi: ci siamo occupati negli ultimi cent’anni di dare giorni alla vita, non vita ai giorni, e se non cambieremo in fretta il paradigma della nostra società, avremo davvero poco tempo.
Fonte:www.vivailverde.org

- Dettagli
Forse ricorderete la vicenda di Karl Bär, attivista austriaco che era stato trascinato in tribunale dall’assessore all’agricoltura della Provincia Autonoma di Bolzano e da 1376 agricoltori altoatesini per aver denunciato l’uso dei pesticidi sulle mele. Dopo il ritiro di quasi tutti gli agricoltori, il processo a Bär continua (ma si appresta a finire) con un solo querelante.
Delle 1376 querele iniziali, ad oggi ne rimane una sola, e Karl Bär in questi giorni dovrà tornare davanti al tribunale di Bolzano per affrontare l’ultima persona, convocata come testimone, che non si era presentata nell’udienza di ottobre 2021. Leggi anche: Era stato denunciato per aver lanciato una campagna contro l’uso di pesticidi nella produzione di mele in Alto Adige, ritirate 1374 querele
Si dovrebbe dunque finalmente concludere, il 28 gennaio, questa vicenda che è iniziata nel 2017 quando l’Umweltinstitut München, l’Istituto per l’Ambiente di Monaco di Baviera, realizzò una campagna informativa (di cui Bär era portavoce) dal titolo “Pestizidtirol”.
A finire a processo dopo poco tempo fu anche Alexander Schiebel l’autore del libro Das Wunder von Mals (Il miracolo di Malles), in cui protagonista è la cittadina dell’Alto Adige/Südtirol che nel 2014 indisse un referendum per mettere al bando una serie di pesticidi.
A pochi giorni dall’ultimo processo che lo coinvolge, Karl Bär ha dichiarato:
"Nemmeno una volta, in oltre un anno e quattro udienze, è stata affrontata in tribunale la questione dell’uso dei pesticidi in Alto Adige. Per questo sono impaziente di veder apparire il testimone querelante nella prossima udienza. Per la prima volta in questo processo si tratterà il vero punto in questione: i pesticidi impiegati nei meleti altoatesini. Dimostreremo che la nostra critica si limita a descrivere i fatti nella loro realtà."
Umweltinstitut ha sempre ricordato invece un particolare molto importante:
"Dire la verità non è un crimine! È quindi evidente che in Alto Adige/Südtirol i pesticidi avvelenano non soltanto la salute umana e l’ambiente ma anche la libertà di espressione. Ma dire la verità non è un reato, è un diritto umano. E proprio per affermare questo diritto abbiamo intenzione di lottare in tribunale: lo faremo per noi stessi, per i nostri sostenitori e sostenitrici e per tutti quelli che sono stati messi a tacere dall’agroindustria e dai governi, a causa del loro pubblico impegno per la protezione della natura e dell’ambiente."
Ma di certo Bär non si è lasciato spaventare da questo processo e nel corso di questi anni ha continuato a combattere per far conoscere a tutti la pericolosità dei vari pesticidi rilasciati in tutto il mondo, sostanze che stanno distruggendo la biodiversità e danneggiando la salute dei consumatori e dei lavoratori agricoli.
Fonte: GreenMe

- Dettagli
Danni a milioni di persone, le sostanze chimiche attaccando cuore, polmoni o reni. Trasportate dal vento, inquinano acque e cibi.
Non rovinano solo cibo e api. I pesticidi avvelenano ogni anno milioni di agricoltori e lavoratori del settore rurale, arrivando a causare la morte di migliaia di persone. Questi i risultati di uno studio, denominato Atlante dei pesticidi, centrato sugli effetti dell'incremento nell'utilizzo di fitosanitari nei cinque continenti, realizzato da un gruppo di ambientalisti tedeschi, in collaborazione con il quotidiano Le Monde. "Incontriamo pesticidi ovunque, anche se non viviamo ai margini del campo", ha dichiarato Susan Haffmans, ingegnere agricolo del Pesticide Action Network, che ha contribuito al documento. Ha poi sottolineato come gli esiti negativi di questo business miliardario si rifletta su tutta la popolazione, andando ben oltre i confini dei terreni coltivati. Secondo i calcoli dell'Atlante, nel solo 2020 i quattro maggiori produttori (Syngenta, Bayer-Monsanto, Basf e Corteva) hanno generato vendite per 31 miliardi di euro. Nonostante sia crescente la consapevolezza sugli effetti nocivi di queste sostanze, le vendite globali di pesticidi non si arrestano, sono anzi cresciute in media del 4% all'anno, anche a causa delle avversità legate al cambiamento climatico, che spingono gli agricoltori a “proteggere” i raccolti con un uso massivo di fitosanitari.
Sintomi e malattie mortali
Esclusi i profitti delle multinazionali, i costi umani sono devastanti. Uno studio, pubblicato sulla rivista Public Health, ha calcolato che i pesticidi avvelenano in modo acuto 385 milioni di lavoratori agricoli ogni anno. I sintomi vanno dalla sensazione di debolezza e mal di testa a vomito, diarrea, eruzioni cutanee, disturbi del sistema nervoso e svenimenti. Nei casi gravi, ad essere colpiti sono cuore, polmoni o reni, che cedono. Le conseguenze possono essere letali. Secondo la ricerca, circa 11.000 persone in agricoltura muoiono per avvelenamento acuto. In questo computo non rientrano coloro che si sono suicidati, disperati a causa delle conseguenze sulla salute dei fitosanitari. "Vediamo che il 44% di tutti i lavoratori nel mondo soffrono almeno un avvelenamento all'anno", ha detto Haffmans, "e in alcuni Paesi è molto di più. In Burkina Faso, per esempio, l'83% dei lavoratori agricoli si ammala almeno una volta a causa dei pesticidi". Le popolazioni più colpite sono quelle del Sud del mondo con circa 256 milioni di avvelenamenti acuti in Asia, 116 milioni in Africa e circa 12,3 milioni in America Latina. Il continente sudamericano è in testa per numero di chili (oltre 5) di pesticidi usati per ettaro. In Europa, la cifra di avvelenamenti si ferma ad 1,6 milioni.
Pericoli e disinformazione
Il maggior numero di vittime nei cosiddetti Paesi in via di sviluppo deriva dall'utilizzo di pesticidi molto pericolosi, spesso vietati in Europa, ma prodotti da multinazionali del vecchio continente, che, seppur bloccati dalle norme dell'Ue, non esitano ad esportarli nei Paesi terzi, approfittando di normative meno stringenti. Informazioni assenti o inadeguate giocano un ruolo in questa strage. Molti piccoli agricoltori non indossano indumenti protettivi, essendo poco preparati sui pericoli che corono. "In alcuni casi, i pesticidi sono semplicemente riempiti in piccoli sacchetti di plastica o bottiglie dai commercianti, senza etichette, senza istruzioni di sicurezza su come usarli e senza avvertimenti", ha evidenziato Haffmans, precisando che "ci sono sempre avvelenamenti involontari perché il pesticida è usato in modo scorretto o qualcuno prende la bottiglia pensando che forse c'è una bibita dentro". Nel calcolo ricadono solo i casi più gravi e di avvelenamento tempestivo. Restano escluse le malattie croniche, derivanti da esposizioni a lungo termine.
Via col vento
Il vento è uno degli elementi che può diffondere i pesticidi per centinaia di chilometri, permettendo loro di inquinare anche fiumi ed acque sotterranee. Tra le vittime, oltre gli essere umani, ci sono anche insetti, uccelli e animali acquatici, mentre i loro residui si trovano spesso nel cibo. Secondo i calcoli dell'Atlante, tracce di questi prodotti si riscontrano soprattutto sulle fragole e sull'uva, addirittura nel 98% dei casi. Seguono le mele (96%), i peperoni (87%), pomodori (84%) e lattuga iceberg (82%).
Tra i più noti pesticidi, c'è il diserbante glifosato, classificato nel 2015 dall'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Airc) come "probabilmente cancerogeno". Un meta-studio scientifico del 2019 dell'Università di Washington ha anche identificato un aumento del rischio di tumori maligni dei linfonodi a causa del glifosato, noto come linfoma non-Hodgkin. I fitosanitari sono stati anche collegati ad asma, allergie, obesità e disturbi delle ghiandole endocrine, così come ad aborti e deformità nelle regioni particolarmente inquinate.
Chi paga il conto?
Se le conseguenze sono ormai accertate, resta molto complesso il risarcimento dei danni subiti. Le aziende sopracitate non stanno pagando per i danni alla salute e all'ambiente, a meno che non vengano portate in tribunale. Come è avvenuto negli Stati Uniti, dove 125mila persone, ammalatesi gravemente dopo aver spruzzato l'erbicida Roundup (a base di glifosato), hanno fatto causa all'azienda produttrice Monsanto. La Bayer, che nel frattempo aveva acquisito la multinazionale statunitense, si è accordata per versare circa 10 miliardi di euro per soddisfare le richieste del 75% dei querelanti. Nonostante le spese per avvocati e risarcimenti, i margini di profitto restano tali che i produttori di di pesticidi perseverano e adesso stanno cercando di ottenere una nuova autorizzazione per il glifosato nell'Unione europea, nonostante sia previsto un divieto al suo utilizzo a partire dal 2024.
Alternative
I pesticidi vengono utilizzati per salvaguardare i raccolti dagli attacchi di parassiti, insetti e condizioni climatiche estreme. I danni di cui abbiamo parlato sono prodotti da quelli chimici, ma esistono alternative."Negli ultimi due decenni, lo Sri Lanka ha dimostrato di aver salvato quasi 10mila vite vietando i pesticidi pericolosi", ha sottolineato l'ingegnere Haffmans. Al tempo stesso in India, "alcune regioni coltivano già completamente o in gran parte senza pesticidi. Questo, a sua volta, incoraggia l'imitazione in altre regioni". L'Unione europea ha studiato le potenzialità offerte dagli agenti di controllo biologico. Questi offrono una soluzione naturale al posto dei prodotti artificiali per il controllo dei parassiti. I tentativi passati di introdurre gli agenti di controllo biologico hanno, però, ottenuto solo successi limitati. Il team del progetto è riuscito tuttavia a combattere la sclerotinia, un patogeno che distrugge la lattuga e molte altre verdure in foglia, utilizzando contemporaneamente due agenti di controllo biologico. Risultati positivi sono stati ottenuti anche dalla combinazione di agenti singoli, come il fungo trichoderma, con altri tipi di trattamento. In un'indagine tra il 2011 e il 2019 l'Eurostat ha accertato che in Italia c'è stato un crollo nell'uso dei pesticidi, ridottosi del 32%. Il nostro Paese è in controtendenza rispetto ad altri colleghi europei, come Spagna e Germania dove il consumo è in crescita.
Fonte: AgriFoodToday

- Dettagli
Quasi la totalità dei circa 7mila campioni di urine analizzati in Francia sono risultati contaminati da glifosato. È quanto emerge da uno studio pubblicato qualche giorno fa sulla rivista Environmental Science and Pollution Research.
I candidati ai test, svolti tra il 2018 e il 2020, sono stati reclutati dall’associazione “Glyphosate Campaign“, che si batte contro questo diserbante classificato come “probabile cancerogeno” nel 2015 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, organizzazione dipendente da l’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’Agenzia nazionale per la salute e la sicurezza alimentare, ambientale e sul lavoro (Anses), l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e le loro controparti in tutto il mondo classificano il glifosato come non cancerogeno.
99,8% delle urine contaminate
Il diserbante è stato rilevato nel 99,8% dei 6.795 campioni sfruttabili, a “un livello medio di 1,19 µg/L”. Un risultato da confrontare con le raccomandazioni dell’Anses secondo cui una quantità di glifosato dell’ordine di 1 µg/L nelle urine corrisponde ad un’esposizione inferiore all’1% dell’assunzione giornaliera accettabile. Ciò non toglie che la contaminazione quasi sistematica dell’urina francese rimane di per sé problematica tanto che 5800 partecipanti allo studio hanno deciso di denunciare alle autorità la loro positività.
Analizzate nel laboratorio tedesco Biocheck, le urine sono state raccolte sotto il controllo di un ufficiale giudiziario per una campagna di denunce legali contro l’erbicida. Il controverso metodo utilizzato da Biocheck, ELISA (per il test di immunoassorbimento enzimatico, in francese) è stato criticato per via di un limite di rilevabilità risultato inferiore rispetto alla cromatografia, l’altra tecnica per rilevare il glifosato nelle urine, ma non consente di affermare la pericolosità dell’esposizione al pesticida.
Tra i più esposti secondo lo studio ci sono gli uomini e partecipanti più giovani, persone che consumano regolarmente acqua del rubinetto o di sorgente, fumatori, consumatori di birra o succhi di frutta. Al contrario, coloro che affermano di mangiare “più dell’85% di alimenti biologici” hanno livelli inferiori.
Fonte: Il Salvagente
Questo sito utilizza cookie tecnici per la navigazione. Per continuare la lettura delle pagine clicca ACCETTO